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La scelta vegan riguarda le persone tanto quanto gli animali e l’ambiente. Ad esempio, le nostre scelte alimentari influiscono sulla disponibilità globale e sui prezzi degli alimenti, e di conseguenza influiscono sulla possibilità – o meno – di persone in ogni parte del mondo di accedere a cibo sufficiente e nutriente.
Influiscono anche sul mondo del lavoro, perché alcune categorie di lavoratori e lavoratrici vengono sfruttate e danneggiate dalla produzione di alcuni alimenti, mentre gli allevamenti possono influire su tutta l’umanità con l’insorgenza di patologie potenzialmente pandemiche e patogeni antibiotico-resistenti. In tutti questi casi, gli allevamenti hanno un impatto gravemente negativo.
La maggior parte degli animali allevati al mondo vengono ammassati in allevamenti intensivi. Questo significa che migliaia e migliaia di animali stressati e immunocompromessi vivono stipati in capannoni semi-industriali, spesso perennemente immersi nelle proprie deiezioni. Non c’è da sorprendersi che in queste condizioni ferite e patologie di vario genere siano all’ordine del giorno. Anziché migliorare le condizioni di vita di questi animali, ecco che gli allevatori li imbottiscono di antibiotici così da mantenerne in vita il maggior numero possibile. Nel mondo, i due terzi di tutti gli antibiotici con rilevanza medica vengono somministrati agli animali negli allevamenti e questa pratica sconsiderata provoca l’emergenza di ceppi di super-batteri resistenti. In Europa si verificano annualmente 4 milioni di infezioni da germi antibiotico-resistenti che causano oltre 37 mila decessi.
La nostra lunga tradizione di sfruttamento degli animali per la loro carne, il latte, le uova e le pelli significa che vi è anche una lunga storia di “malattie zoonotiche” – malattie che si trasmettono dagli animali alle persone. Attualmente, i tre-quarti di tutte le malattie infettive emergenti nelle persone hanno avuto origine dagli animali, inclusa la H1N1 “influenza suina”, che ha infettato circa 60,8 milioni di persone nel primo anno, e la H5N1 “influenza aviaria”, che uccide il 60 per cento delle persone infettate. Da molto tempo i virologi lanciano l’allarme sui rischi legati agli allevamenti intensivi, e gli attivisti e le attiviste li chiamano “bombe a orologeria” per via del loro potenziale pandemico.
L’esposizione alle sostanze chimiche, i gas tossici derivanti dalla decomposizione dei liquami e l’alta concentrazione delle polveri sottili che possono provocare gravi danni alle vie respiratorie sono rischi comuni per chi lavora negli allevamenti. Considerando i pericoli e il misero salario, non è certo una sorpresa che il 70 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici negli allevamenti sia straniero, con picchi del 90 per cento in alcune regioni. Nei macelli e nella filiera della trasformazione delle carni il lavoro si basa largamente su pratiche abusive di subappalto, con l’utilizzo di lavoratori migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dai Balcani, dall’Africa settentrionale e centrale e dall’Asia orientale attraverso cooperative, che permetterebbero alle aziende di risparmiare fino al 40 per cento rispetto ad una assunzione diretta. Le lunghe ore di lavoro, l’attività ripetitiva, la movimentazione dei macchinari, le linee di macellazione in rapido movimento, i coltelli affilati e i proiettili captivi da stordimento sono una combinazione assai pericolosa. Una indagine dell’organizzazione non governativa Oxfam negli Stati Uniti ha rilevato un quadro umiliante ed inquietante: nel settore avicolo ai lavoratori è negato persino il permesso di andare in bagno, al punto che molti di loro sono costretti a indossare dei pannoloni.
Sebbene la storia dell’imposizione alimentare cambi di paese in paese, ciò che è universalmente vero è che il panorama alimentare è stato cambiato dai colonizzatori. In alcuni casi, gli Europei temevano che il cibo indigeno li rendesse deboli o ammalati, o che potesse in qualche modo trasformarli in “indigeni”. Pertanto, portarono i propri alimenti, le colture e gli animali d’allevamento, costringendo le popolazioni native a lavorare su terreni agricoli espropriati per produrre cibi voluti dai colonizzatori. Questo portò spostamenti in massa delle popolazioni native e la perdita di cibi tradizionali, la scomparsa di cerimonie, e, nel tempo, lo svanire della conoscenza. Oggi, questo retaggio lascia alcune comunità gravate da una incidenza sproporzionatamente alta di problemi di salute.
È il sistema per cui le persone di colore sono impattate in modo sproporzionato dai rischi ambientali in alcune aree del pianeta. Negli USA, ad esempio, gli allevamenti intensivi sono spesso costruiti dove vivono comunità di colore, per assicurarsi forza lavoro motivata e a basso costo. Queste stesse comunità sopportano anche il peso dell’impatto ambientale associato agli allevamenti, come una bassa qualità dell’aria e dell’acqua. C’è poi il problema dei deserti alimentari – aree con una scarsità di alimenti freschi, nutrienti ed economicamente accessibili – e delle discariche alimentari – aree con una elevata presenza di cibo spazzatura e fast-food. Quando questi due fattori si sommano, possiamo vedere come i problemi di salute vengono fin troppo spesso imposti sulle comunità di colore attraverso pratiche agricole localizzate e il negato accesso ad alimenti sani e di qualità.
Benché produciamo abbastanza cibo da nutrire l’intera popolazione umana, oltre 800 milioni di persone soffrono ancora la fame. Una delle ragioni è la forte competizione per le risorse fra le persone e i miliardi di animali che alleviamo. Questo fa schizzare in alto il prezzo dei cereali e troppo spesso il desiderio di carne del nord del pianeta ha la meglio sul semplice bisogno di mangiare di una larga parte della popolazione mondiale. Il nocciolo della questione è, molto semplicemente, che la zootecnia è una filiera perennemente in perdita. I maiali necessitano di 8,4 kg di mangime per produrre appena 1 kg di carne, mentre i polli ne richiedono 3,4 kg. Globalmente il 40 per cento di tutti i terreni arabili vengono ormai utilizzati per coltivare mangimi: se potessimo coltivare invece vegetali per uso umano, potremmo nutrire ben quattro miliardi di persone in più. Scegliere alimenti vegetali significa scegliere la giustizia e l’equità alimentare e assicurare che vi sia cibo nutriente a sufficienza per tuttx, in qualsiasi parte del mondo si trovino.